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"Il pianoforte? Il
pianoforte è uno strumento apparentemente incolore. Può sembrare
povero rispetto ad altri strumenti perché privo di effetti
speciali: non ha il pizzicato degli archi, il Flatterzunge dei
fiati o i suoni bouché dei corni (nel pianoforte l'uso della
cordiera e delle parti di legno e di metallo nella Nuova Musica
si deve considerare piuttosto un'eccezione che conferma la
regola). Il flauto è incantatore, l'oboe è pastorale, la tromba
araldiva, il corno cacciatore ecc. Ma tutti questi strumenti sono
personaggi a ruolo fisso, maschere che ricordano i tipi della
commedia dell'arte. Al contrario il pianoforte possiede
l'ineguagliabile possibilità di riuscire a evocare
illimitatamente qualunque tipo di suono. (provate nella "Winterreise"
a sostituire dei corni autentici, al richiamo pianistico dei
corni: l'evocazione nostalgica del bosto ne uscirà
incredibilmente slavata). Si può considerare quindi il timbro
del pianoforte come una sorta di "meta-timbro", cioé un qualcosa
che oltre ad essere fisico è anche concettuale e capace di
alludere a qualunque strumento, un infinito potenziale
espressivo dell'Idea musicale".
Già, dico io, ma è poi così semplice trasformare uno strumento a
corde percosse, di per sé freddo e inespressivo, in un qualcosa
di vivo e palpitante? Qual è il segreto per produrre espressione
e cantabilità? E' questione di fantasia, di "tocco", di cuore?
come è possibile "parlare" a chi ascolta? Ballista ha risposte
da fisiologo-psicologo-anatomista.
"La tecnica pianistica, per essere efficiente, deve osservare
precise regole di fisiologia nel rispetto di una esatta igiene
muscolare. Ad esempio: ad ogni impulso nervoso che contrae un
determinato muscolo deve corrisponderne un altro che metta in
stato di risposo il suo muscolo antagonista. Tutti coloro che
sono in grado di emettere un bel suono osservano, consciamente o
inconsciamente, questa regola che si può enunciare più
semplicemente in questo modo: nel gioco pianistico bisogna saper
isolare i muscoli che servono per la produzione di quel
determinato suono, mantenendo contemporanemanete rilassati tutti
gli altri. E' una questione di dissociazione".
Lamenta che i libri sul pianoforte generalmente si limitano a
parlare soprattutto di interpretazione, trascurando il problema
fondamentale della produzione del suono. E fornisce altri dati
di grande interesse.
"Il cantabile nel pianoforte si ottiene dallo sfruttamento della
massa muscolare del braccio sostenuto dal flessore profondo del
dito. Con il diverso dosaggio della flessione del dito e dello
sfruttamento del dito il suono può essere graduato infinitamente.
Ma naturalmente la qualità del cantabile di un pianista è sempre
legata alla sua estetica e quindi può essere raggiunto anche in
altri modi. Il cantabile di Rubinstein è molto diverso da quello
di Horowitz: osservando quest'ultimo nei filmati, si viene
colpiti dal risultato eccezionale del suo cantabile, ma anche
sorpresi dall'apparente rigidità del suo gioco pianistico.
Sembra insomma che il maestro ucraino suoni il pianoforte come i
più accreditati docenti strepitano non si debba suonare. Ma ad
una analisi approfondita, si osserva che Horowitz ottiene il suo
personalissimo cantabile mettendo a contatto del tasto la parte
interna delle falangi anziché la punta del dito utilizzando,
invece del flessore profondo, i muscoli lombricali e interossei,
che per entrare in azione presuppongono il dito parzialmente
rigido. Questa tecnica sofisticatissima consente ad Horowitz di
ottenere un cantabile particolarmente luminoso ed anche di
sciorinare passi di grande vaporosità ed estrema velocità. Devo
questa illuminazione alla straordinaria sottigliezza di
osservazione del pianista Tiziano Poli, autore di un recente,
insostituibile libro sulla tecnica pianista di cui raccomando a
tutti la lettura".
Giocoforza parlare dei pedali il cui uso corretto - secondo lui
- richiede un'arte straordinaria.
"L'uso di quello sinistro, per suonare più piano è un uso
improrpio. Certo, il suono diminuisce ma la vera funzione di
questo pedale (detto "una corda") è di cambiare il timbro. Il
pedale destro lo si può usare graduandolo infinitamente. Non
solo abbassandolo a metà ma anche a un quarto, ad un quinto
della corsa e via dicendo. Non sempre è necessario abbassarlo
fino in fondo".
Comprendo che quello dei pedali è uno studio
nello studio.
"Nelle sonate di Scarlatti -
dice - Horowitz suonando in
registri diversi riusciva a far sentire, grazie ad un uso
trascendentale dei pedali, diversi timbri sovrappossti che
oltretutto si potevano distinguere singolarmente come nella
pittura le velature dei colori".
Parlando di tecnica, Ballista sostiene che essa deve essere
sempre al servizio dell'espressione musicale; una tecnica
astratta e non rivolta alla produzione di un suono
intenzionalmente individuato è inutile e dannosa perché
condiziona ad un unico modo di suonare. Ed è convinto che
l'intera metodologia sia da farsi solo con quegli studi che
abbiano un contenuto musicale.
"Chopin -
dice - impediva ai suoi allievi di studiare ogni
giorno e per troppo tempo lo stesso pezzo. Ed è giusto: se
fissata in ogni minimo dettaglio l'esecuzione di un pezzo
rischia di inaridirsi. Analogamente Furtwaengler diceva che le
prove d'orchestra servono unicamente a fissare i limiti
dell'improvvisazione. Uno volta presa conoscenza del pezzo nel
suo insieme e dominati i passi tecnicamente difficili, il senso
musicale verrà fuori solo nell'esecuzione. Il carattere e la
sonorità della prima nota condizioneranno tutto ciò che segue".
Il pianoforte che Ballista preferisce è il Boesendorfer. Questo
strumento lo ritiene straordinario anche per una particolare
caratteristica. E' lo strumento più vicino ai timbri d'orchestra.
Con esso si può addirittura imitare l'emissione del suono degli
archi effettuando un abbassamento lentissimo del tasto.
Antonio Ballista, innamorato pazzo del Lied, esperto camerista,
direttore d'orchestra, pianista ma soprattutto musicista in
senso lato.
Lo incontro a Roma ed è una festa. Con lui non si può divagare.
Comincia a parlare di musica a ruota libera e non c'è verso di
interromperlo. Gli puoi proporre altri argomenti ma lui, come
l'ago della bussola, finisce sempre con l'indicare il polo in
cui vive. Mi chiedo cosa avrebbe potuto fare se non fosse stato
baciato da Euterpe.
"Nella mia infanzia le prime musiche che ho ascoltato sono state
romanze d'opera accompagnate al pianoforte da mio nonno che era
maestro di canto tra i più noti della sua epoca. Era amico di
Puccini che gli affidava la preparazione dei cantanti per le sue
opere nuove ed anche di Giordano, Mascagni, Strauss e Leoncavallo.
Mio nonno ha lavorato anche diversi anni alla Scala, invitato da
Toscanini, per la preparazione delle produzioni e come
collaboratore pianistico. I miei ascolti infantili del
repertorio vocale con l'accompagnamento del pianoforte erano
destinati a condizionare il mio gusto musicale per tutti gli
anni a venire. Purtroppo la letteratura liederistica è quella
più disattesa nei nostri circuiti musicali ma lo era anche nel
passato. Da qualche parte Ravel ha scritto: "Quando i Lieder di
Hugo Wolf entreranno a far parte della normale vita
concertistica si potrà parlare di civiltà musicale". Posto che
Hugo Wolf è uno dei più grandi compositori di tutti i tempi e
che l'esecuzione delle sue opere in concerto è ancora rarissima,
se si dovesse usare solo la logica per valutare la situazione
musicale del tempo di Wolf e di oggi si dovrebbe concludere che
musicalmente allora come adesso viviamo nelle barbarie".
Tra i suoi maestri ricorda con particolare stima ed affetto
Antonio Beltrami, "un musicista completo ed un uomo di grande
civiltà".
Dice. "Fu lui a mettermi in duo con Bruno Canino nel
corso di musica da camera da noi frequentato al Conservatorio di
Milano, decidendo così una ragguardevole parte del nostro
destino. Con l'eccezione di Beltrami, nella mia educazione
scolastica in generale sono stato istruito prevalentemente su
cose che non mi interessavano. Ciò però è stato per me di
inestimabile utilità perché mi ha portato a capire quello che
desideravo veramente conoscere. Mi definirei quindi un
autodidatta da studente ma un serio allievo da professionista,
con l'inestimabile chance di poter essere io stesso ad
individuare di volta in volta i maestri a me più utili. Ho
imparato molto anche dai miei partners e dai compositori che ho
frequentato. Nell'insegnare ad altri ho imparato che più che
istruire e correggere è importante appassionare e soprattutto
far imparare ad imparare. Con lo scopo che talento e
preparazione arrivino ad integrarsi tanto da confondersi l'uno
nell'altra".
Negli anni '50 e '60 del secolo scorso Milano fu davvero la
capitale italiana della cultura: teatro, mostre, concerti,
novità e avanguardia. Anche il conservatorio musicale era in
sintonia con Eldorado artistico che procedeva di pari passo con
il grande sviluppo commerciale e industriale. Naturale quindi
che alcuni giovani fossero interessati alle nuove correnti
intellettuali nate nell'immediato dopoguerra in Italia ed
Oltralpe.
"Io e Bruno Carnino -
dice il maestro - prendevamo a prestito
dalla biblioteca del conservatorio le partiture delle opere che
ascoltavamo alla radio, a rotazione nelle nostre case. Ma
accanto a Verdi, Puccini e Wagner leggevamo avidamente tutto
quello che si trovava della letteratura moderna: Petrassi,
Casella, Malipiero, Dallapiccola, Ghedini ed anche le primizie
di Stockhausen, Berio, Ligeti, Boulez, Cage. Allora era comunque
non facile reperire quelle musiche.
In quei nostri anni giovanili in Italia l'unico duo pianistico
di fama internazionale era il Duo Gorini-Lorenzi, un duo di
grande talento ma nato in un momento di relativo isolamento
culturale del nostro paese. Bruno ed io abbiamo avuto la fortuna
di cominciare la nostra attività in un momento di gran fervore
di rinnovamento internazionale che offriva notevoli possibilità
di lavoro anche oltre frontiera. Il nostro entusiasmo per le
nuove tendenze e la nostra assoluta disponibilità di studio
fecero sì che ci inserissimo ben presto nel giro di esecutori
della cosiddetta "nuova musica" che a partire dagli anni '50 si
era diffusa dalla cittadella di Darmstadt in tutte le direzioni.
La mole di nuove esecuzioni era allora impressionante. Ricordo
che negli anni sessanta, durante quella straordinaria vetrina di
novità contemporanee che erano le non mai abbastanza lodate "Settimane
della Nuova Musica" di Palermo, la nostra presenza era richiesta
in quasi tutte le prestazioni strumentali e luoghi di prova e,
pur lavorando quasi senza interruzione tutto il santo giorno,
riuscivamo lo stesso a scontentare tutti i direttori che non ci
perdonavano di non possedere il dono dell'ubiquità".
Quali rischi comportava allora eseguire musica d'avanguardia?
"Innanzitutto quello di trovarsi addosso etichette preclusive
nei riguardi di musiche di altro genere. Poi l'eventualità
abbastanza frequente di doversi sottoporre a supersforzi per
studiare pezzi ricevuti magari pochi giorni prima del concerto.
Infine il rapporto col pubblico. Negli anni eroici della
diffusione della nuova musica, le reazioni del pubblico talora
arrivavano a rendere problematica la stessa possibilità di farsi
ascoltare (una volta a Bordeaux me la sono vista brutta prima
dell'intervento della...polizia).
"In pochi anni arrivammo a disporre di un cospicuo repertorio di
composizioni appositamente scritte per noi. E anche nei nostri
programmi più tradizionali ci facevamo un punto d'onore di
inserire sempre accanto ai classici, composizioni nuove. Negli
anni '60 arrivammo ad eseguire presso la società per antonomasia
più tradizionalista di Milano, la Società del Quartetto, gli
scandalosissimi "Tableaux vivants" di Sylvano Bussotti. E
durante la nostra esecuzione Cathy Berberian ebbe l'idea di
attraversare il palcoscenico avvolta in pesanti catene".
"Secondo me -
prosegue Ballista - Darmstadt è stato un fenomeno
interessantissimo per la sua utopia di rinnovamento totale del
linguaggio musicale, ma la sua reale importanza fu di brevissima
durata anzi divenne abbastanza presto una sorta di accademia,
contraddicendo tutte le sue premesse o anche peggio: una sorta
di brevetto impositivo, che escludeva diritto di cittadinanza a
tutti i musicisti che avevano orientamenti differenti".
Il Maestro in questo era più che vaccinato. Pur essendo
considerato uno specialista dell'avanguardia, il nuovo lo
trovava anche altrove non smettendo mai di perlustrare i
repertori più inconsueti. Già da allora aveva intrapreso una
sorta di «vita parallela tra la musica classica e quella di
consumo». Non era contaminazione ma l'abbattimento delle
frontiere dei generi in vista di presentare la musica più
interessante di ogni tendenza.
Curiosando nella sua discografia, accanto al repertorio classico
scopriamo qualcosa di singolare: un titolo indicativo ma al
tempo stesso fuorviante, «Made in Italy». Si tratta di una
raccolta di cinquanta anni di canzoni italiane da Bixio a Danzi
a Mascheroni ed altri nelle versioni classiche di Alessandro
Lucchetti. L'orchestra è quella dei «Pomeriggi Musicali» e il
direttore è Antonio Ballista.
Ma c'è di più. Gli lascio la parola.
"A Parigi dove ero andato a studiare con Boulez per mettere a
punto una tournée di musiche sue, scoprii in un negozio di
musica un album di ragtimes di Scott Joplin (allora in Italia
non si conosceva neanche l'esistenza di questo autore). Rimasi
affascinato dalla zampillante freschezza inventiva di questi
brani. Da allora suono regolarmente ragtimes di questo autore
nei miei concerti.
Allora continuo a non capire come si possa a priori discriminare
un genere dal punto di vista estetico. Ci sono sinfonie
noiosissime -
dice - e canzoni strepitose. I capolavori stanno
da entrambe le parti".
Porta ad esempio Gershwin.
"Fino a una quarantina di anni fa era considerato semplicemente
un buon compositore ritmo sinfonico. Ma oggi chi può dubitare
del suo genio? E Puccini? Nella prima parte del secolo scorso
musicisti anche illustri lo consideravano un compositore di
musica piccolo borghese buono a far piangere le portinaie. Oggi,
nel genere della musica di consumo solo i Beatles godono di
reputazione indiscussa presso la maggior parte dei musicisti
classici".
Tra i vari vagabondaggi del maestro alcune riletture di opere di
Verdi, Rossini e Puccini ancora nelle orchestrazioni per piccolo
gruppo di Alessandro Lucchetti. Sono parafrasi alla maniera di
Liszt in cui le parti dei cantanti sono eseguite dagli strumenti.
Come in Liszt una visione prospettica diversa della drammaturgia
di queste opere.
Già si è detto: distogliere Ballista dal suo mondo di suoni non
è cosa facile. Ha sempre nuovi argomenti, un'infinità di
esperienze da raccontare, una quantità di intuizioni da
ipotizzare, un vero vulcano in eruzione.
Provo ad introdurmi di forza in un minuscolo varco di tempo che
mi concede ed è una nuova scoperta: adora la pittura forse ancor
più della musica. Tra un concerto e una mostra non ha dubbi:
preferisce quest'ultima. È ancora rammaricato per aver perso la
grande mostra belga di Leon Spilliaert, uno dei suoi pittori
preferiti. È orgoglioso di possedere un catalogo completo (di
2400 opere) del suo amatissimo Vallotton e ritiene di aver
trascorso uno dei più bei pomeriggi della sua vita quando con
sua moglie si è recato al museo dell'Aja per vedere in
esposizione tutte le opere di Vermeer.
La pittura per lui non è solo contemplazione. Si diletta a fare
incisioni e a confrontarle con un famoso amico pittore. Questi,
a sua insaputa, ha portato alcune sue opere in un negozio di
Vienna dove il direttore (o la direttrice: non lo sa) del Museo
Albertina le ha viste e comprate.
Lui dissimula ma si vede che ne è fiero.
"Così -
commenta - ho dieci incisioni all'Albertina di Vienna.
Mi sembra una follia..."
Altro piccolo varco in cui mi infilo. Ormai sono diventato un
esperto. Cosa può fare un artista come lui quando le muse, in un
momento di distrazione, allentano l'abbraccio?
"Non ho hobby particolari e non sono attratto in particolare da
nessun tipo di gioco. Mi piace andare a zonzo liberamente, senza
pensare ma guardando attentamente tutto quello che capita
intorno. Sento però foltissima l'attrazione per la montagna,
forse perché per me rappresenta il simbolo stesso di ciò che più
mi affascina nel reale, infatti la dimensione della montagna è
talmente altra rispetto a quella degli oggetti che abitualmente
ci circondano che più ti inoltri in essa e più la sua forma
complessiva ti sfugge. Sulle montagne sparisce la differenza tra
il grande e il piccolo: lassù tutto è ugualmente importante e
ciò mi introduce in una dimensione di grande serenità".
Si ritorna alla musica. Già abbiamo divagato tanto. Con lui è
inevitabile: si va sempre verso quel fascio di luce, quel faro
potentissimo, un sole direi, che riscalda e trasfigura la sua
esistenza. Ad un certo punto sembra inevitabile che salti fuori
quello che mi sembra il fiore all'occhiello della sua attività:
l'ensemble «Novecento e oltre».
"Ho formato questo gruppo nel 1955, nell'occasione di
un'integrale weberniana promossa a Palermo. Il mio gruppo ha
l'orgoglio e l'umiltà di diffondere quel meraviglioso patrimonio
per ensemble che ci ha lasciato la prima metà del secolo scorso,
patrimonio che non deve essere considerato solo un formidabile
repertorio di musiche, ma anche un caleidoscopico ventaglio di
visioni del mondo: ritengo quel periodo unico nella storia della
musica per la sua creatività».
A questo punto vorrei terminare questa conversazione con un
musicista così ricco di esperienze diverse, chiedendogli di
raccontarmi le impressioni musicali più indimenticabili della
sua vita. Eccone una: l'esecuzione di Pélleas et Melisande
diretta da De Sabata alla Scala. Per lui studente fu una
scoperta sensazionale e non si volle privare nemmeno di una
replica: sette sere! Ne fu folgorato e Debussy rimase da allora
il suo musicista preferito e considerato — sono parole sue — il
più proteso in assoluto verso l'avvenire. Un'altra impressione
indimenticabile fu per lui l'Ernani di Verdi diretta da
Mitropulos.
"Mitropulos dava l'illusione che ogni nota di quello che
interpretava fosse sorprendentemente nuova, come appena scritta.
Mi sono scervellato per capire il miracolo di questo risultato e
sono arrivato alla conclusione che tale prodigio dipendeva forse
non solo dalla sua genialità di interprete ma anche da
un'attitudine etica. Si sa che da giovane aveva interrotto la
sua attività musicale per ritirarsi sul monte Athos. Ma dopo
qualche mese si rese conto che la sua vera vocazione non era
quella del monaco ma di servire Dio attraverso la musica.
Mitropulos era il musicista meno narcisista che sia mai esistito".
Umberto Vassallo
da "I Maestri del pianoforte" Edizioni Scientifiche Italiane